#alristorante
Ne parlano tutti, perfino i film (vedi The menu) e le serie tv (vedi The Bear), eppure non è un discorso semplice da fare, specie per chi non è addetto ai lavori.
La ristorazione è in crisi e nessuno più vuole farla, si sa. Ma in qualità di persona che lavora nel settore da un po’ di anni, ci tengo a dare la mia personalissima opinione e a dire che, nonostante la passione, anch’io vacillo sul da farsi, insieme a molti altri e molte altre.
Cerco di mettere le ragioni per punti, anche se sono tutte concatenate l’una all’altra in un gioco dell’oca in cui si passa sempre dal via.
1. Viene ancora visto come un lavoro “umile”
E il via è che non riusciamo ancora a non considerare la professione del ristoratore come tale, e non come il ripiego dello studente che deve arrotondare o, ancora peggio, di chi non ha studiato affatto. In fondo, perfino mia mamma si è rifiutata di mandarmi all’alberghiero obbligandomi a iscrivermi al geometra, perché un figlio all’alberghiero era una dichiarazione ufficiale di nullafacenza.
Ci penso adesso, a 35 anni suonati e dico che chissà dove sarei oggi se avessi fatto l’alberghiero. Ma tralasciando il senno di poi che non porta mai lontano, dal lavapiatti al commis, è difficile allontanarsi dall’idea che si tratti di un lavoro “umile”.
2. Tutti vogliono diventare grandi chef, ma nessuno vuole fare la gavetta
Sì, è una cosa che accade nonostante Masterchef. Il successo dei programmi di cucina ha teoricamente cambiato le prospettive di molti, seguendo il trend epocale del “faccio del mio hobby un impiego”. C’è qualcuno che ha il sogno nel cassetto di fare la ristorazione, o meglio, di diventare un grande chef.
Sono arrivati i corsi universitari e persino i master professionalizzanti (altro che alberghiero) ma mai come in ristorazione è necessaria tanta gavetta e, in passato, molti sono andati lontano proprio iniziando da zero. Non c’è più nessuno disposto ad attraversare questi passaggi. Al netto di sacrifici economici e dispendio energetico, deve essere tutti e subito. Non si inizia dall’osteria, si pretende direttamente lo stellato (e come saprete dalla recente notizia della futura chiusura del Noma, non è che il fine dining se la passi meglio, anzi)
3. L’aspettativa del cliente è sempre più alta
Anche il cliente ripone aspettative altissime quando va a mangiare fuori. Giudice imparziale dei programmi che guarda prima di andare a dormire, quando ha modo seleziona il ristorante in base alle recensioni già scritte e ne lascia a sua volta per pretendere servizio impeccabile, cibo squisito, esperienza indimenticabile. Ma il cliente, come ho già avuto modo di raccontarvi in precedenza, non sa molte cose.
4. Si sacrificano affetti e tempo libero
Tipo, il cliente non sa che il 99% dei ristoratori al momento sta lavorando allo stremo delle proprie forze. Post pandemia, la domanda è cresciuta perché tutti vogliono tornare a godersi la vita, recuperando gli anni persi a cucinare e panificare in casa. Contemporaneamente, però, l’offerta è diminuita: molti locali hanno chiuso i battenti, ma soprattutto, c’è carenza di personale.
E perché c’è carenza di personale? Perché anche noi ristoratori abbiamo attraversato i lockdown rimettendo in discussione molte delle nostre priorità. La nostra professione per sua natura porta a sacrificare affetti e tempo libero: siamo in prima linea quando voi siete in vacanza o volete festeggiare. Di conseguenza, noi non abbiamo il tempo di farlo e a lungo andare è un peso che influisce sul proprio stato psico-fisico.
5. Si sacrifica anche la propria salute fisica e mentale
Infatti, un altro punto fondamentale sta nella gestione stessa del lavoro quotidiano: lavorare per turni è una pratica logorante che porta a non avere mai degli orari fissi, né del sonno né dei pasti, paradossalmente. Se a questo si aggiunge la fisiologica frenesia che porta a lavorare con il pubblico e con un pubblico sempre più esigente, beh, capite bene che sovrappeso, abuso di alcol, stress e depressione non sembrano poi così improbabili, no?
C’è poco di umano nella ristorazione di oggi.
6. Food cost e labour cost sono aumentati esponenzialmente
Per carità, tutti questi sacrifici vengono profumatamente retribuiti se si fa i direttori, se si gestisce, se si lavora in un posto di prestigio.
Eppure ci sono situazioni in cui si viene pure sottopagati.
In gergo si chiama labour cost, ed è il prezzo della manodopera. In un ristorante, è la cifra di spesa più alta insieme al food cost, ovvero il prezzo delle materie prime.
Se, tornando al punto 3, queste devono essere freschissime e di altissima qualità per soddisfare le esigenze del cliente, capite bene che da qualche parte si deve pur tagliare.
E si taglia proprio sul personale. O si chiude.
7. La concorrenza è sempre più spietata
E più chiudono, più la concorrenza diventa spietata tra i pochi che restano in piedi, provocando ulteriore stress. Come ci si comunica, come ci si promuove, quanti sconti si fanno, come ci si comporta al tavolo: non si può sgarrare un colpo. E quindi torniamo al punto 1: davvero è un lavoro così da poco? Davvero “a fare il cameriere sono buoni tutti”?
Ma soprattutto, quale futuro, quali le soluzioni per risolvere i 7 problemi che vi ho illustrato?
Giuro che un giorno vi racconterò anche i 7 motivi per cui vale ancora la pena essere un ristoratore, nel frattempo leggo volentieri i vostri commenti per condividere anche le vostre esperienze nella ristorazione e parlarne insieme.